La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25330 del 9 ottobre 2019, ha stabilito che in tema di confezionamento e pubblicità degli alimenti, anche il rivenditore è sanzionabile, ex art. 18 d.lgs. n. 109 del 1992 (nella formulazione applicabile “ratione temporis”), per le infrazioni di cui all’art. 2 del medesimo d.lgs., allorché non sia consentita al consumatore una immediata e certa identificazione degli elementi propriamente integranti la corretta etichettatura: ed infatti, nonostante nella sua qualità di mero distributore immetta il prodotto sul mercato come gli viene fornito dal produttore, egli acquista la veste di operatore commerciale appartenente alla filiera dei passaggi del prodotto preconfezionato (dal momento della produzione a quello della vendita finale), qualifica alla quale si riferisce, nello stabilire i principi ed i requisiti della legislazione alimentare, l’art. 17 del Reg. CE n. 178 del 2002, secondo cui spetta agli operatori (e non ai soli produttori) del settore alimentare (e dei mangimi) garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti (o i mangimi) soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano soddisfatte.
Con ricorso proposto ai sensi della L. n. 689 del 1981, veniva presentata opposizione avverso il provvedimento della Giunta provinciale di Bolzano, con il quale era stato respinto il ricorso gerarchico avanzato ai sensi del L. P. n. 1 del 1992, art. 3, comma 5, con il quale il Direttore del Servizio Veterinario Provinciale aveva contestato alla suddetta società opponente la violazione del D.Lgs. n. 109 del 1992, art. 2, comma 1, consistita nell’aver messo in vendita – presso l’esercizio commerciale dalla stessa gestito – uova fresche in confezioni da dieci e sei pezzi senza essere regolarmente etichettate. Il Tribunale di Bolzano – sez. dist. di Bressanone, nella costituzione dell’ente opposto, rigettava l’opposizione con sentenza n. 5/2013.
In secondo grado, la Corte di appello di Trento rigettava parimenti il gravame proposto dalla società appellante.
A sostegno dell’adottata decisione la Corte territoriale, sul presupposto che la violazione era rimasta accertata nella sua oggettività, rilevava che alla stregua della interpretazione di cui alla sentenza del 23 novembre 2006 (resa dalla Corte di Giustizia nella vertenza C-315/05), pure il rivenditore avrebbe potuto essere ritenuto responsabile della suddetta violazione con riferimento alla normativa nell’ambito dell’etichettatura dei generi alimentari, nonostante egli, nella sua qualità di mero distributore, immetta il prodotto sul mercato come gli è stato fornito dal produttore.
Avverso la suddetta sentenza di appello veniva proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico complesso motivo, al quale ha resistito con controricorso l’intimata Provincia autonoma di Bolzano.
Anche in sede di legittimità la Suprema Corte rigettava il ricorso ribadendo come la violazione ascritta alla ricorrente è quella prevista dal D.Lgs. n. 109 del 1992, art. 2, comma 1, (“ratione temporis” applicabile nella fattispecie), concretatasi nell’aver messo in vendita uova fresche in apposite confezioni senza regolare etichettatura.
La società ricorrente, infatti, assumeva che il relativo obbligo dell’etichettatura conforme a legge avrebbe dovuto considerarsi incombente sul solo produttore e non, quindi, anche sul rivenditore.
Invero il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (contenente l’attuazione della direttiva 89/395/CEE e della direttiva 89/396/CEE concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari), all’art. 2 (intitolato “Finalità dell’etichettatura dei prodotti alimentari”), prevede, in generale, che l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione sono destinate ad assicurare la corretta e trasparente informazione del consumatore e che le stesse devono, in particolare, essere effettuate in modo da non indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull’origine o la provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso.
Il successivo art. 18, al comma 1, sancisce – dopo le modifiche apportate prima dal D.Lgs. n. 68 del 2000, art. 8 e, poi, dal D.Lgs. n. 181 del 2003, art. 16 – che la violazione delle disposizioni dell’art. 2 è punita – pur senza più individuare specificamente i soggetti destinatari – con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro tremilacinquecento a Euro diciottomila.
Il conseguente Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio, nello stabilire i principi ed i requisiti generali della legislazione alimentare, prevede – all’art. 17 – che spetta agli operatori (e non – si noti – ai soli produttori) del settore alimentare (e dei mangimi) garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti (o i mangimi) soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte.
In ragione della normativa sopra richiamata, la Cassazione esplicitava che la stessa sentenza della Corte di Giustizia del 23 novembre 2006 (relativa alla vertenza C-315/05), evocata nell’impugnata sentenza e relativa all’interpretazione degli artt. 2, 3 e 12 della Direttiva 2000/13, avvalora il risultato che anche il rivenditore può essere ritenuto responsabile della violazione della normativa nell’ambito dell’etichettatura dei generi alimentari, nonostante egli, nella sua qualità di mero distributore, immetta il prodotto sul mercato come gli viene fornito dal produttore, acquisendo, in ogni caso, nella catena dei passaggi dell’alimento preconfezionato (dal momento della produzione a quello della vendita finale), il ruolo di operatore commerciale, qualifica alla quale si riferisce il citato art. 17 del Regolamento CE n. 178/2002.
In generale, il D.Lgs. n. 109 del 1992 ha inteso riordinare in modo organico l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità degli alimenti, correlandola, come ha osservato la Corte costituzionale con la sentenza n. 401 del 1992, alla materia del commercio e alla connessa protezione del consumatore, allo scopo di assicurare trasparenza ed adeguata informazione nella vendita dei prodotti, in un contesto nel quale i profili igienico – sanitari risultano assorbiti nella finalità della protezione del consumatore attraverso la disciplina del commercio. E – tenuto conto della “ratio” delle disposizioni dettate, al riguardo, dal citato D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (con particolare riguardo all’art. 2, in relazione all’art. 3, lett. f e art. 11, consistente nell’evitare che l’etichettatura induca in errore l’acquirente, tra l’altro, sul luogo di origine o di provenienza del prodotto) – si deve ritenere sussistente la violazione amministrativa prevista dall’art. 18 di detto D.Lgs., allorchè al consumatore non sia consentita una immediata e certa identificazione degli elementi propriamente integranti la corretta etichettatura.
Con quest’ultimo termine si fa riferimento a tutte quelle informazioni che riguardano un determinato alimento confezionato, ovvero quelle che hanno riguardo alla natura, alla identità, alla qualità, alla composizione, alla quantità, alla conservazione, all’origine o alla provenienza, al modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso. Per effetto dell’osservanza di tali prescrizioni l’etichetta (come anche il contrassegno (marcatura CE) deve essere in grado di rendere consapevole il consumatore sui requisiti delle merci in generale, esercitando un’azione esplicativa a vantaggio della tutela qualitativa, ma anche di quella igienico-sanitaria.
Orbene, alla luce della suddetta ricostruzione normativa e della valorizzazione della ratio legis (alla luce dell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia in ordine all’applicazione delle Direttive emanate nel settore alimentare), non può dirsi che il rivenditore – quale operatore commerciale appartenente alla relativa filiera – possa ritenersi escluso dall’ambito dei destinatari responsabili della violazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 1992, art. 2, comma 1, (“ratione temporis” applicabile nella specie).
Gli Ermellini specificano altresì che gli deve considerarsi tenuto a verificare, tra gli altri requisiti, l’origine o la provenienza dei prodotti e fare, perciò, in modo che l’acquirenti compri un prodotto preconfezionato conforme a quello da ritenersi regolare per legge con riferimento ai prodotti che gli vengono forniti. Deve, infatti, evidenziarsi come la normativa del settore alimentare – come rilevato anche dalla giurisprudenza Europea – contiene un’ampia definizione della cerchia degli operatori che possono essere qualificati come responsabili di violazioni degli obblighi in materia di etichettatura contenuti nella Direttiva 2000/13 e tale previsione deve reputarsi manifestamente idonea a contribuire al conseguimento dell’obiettivo di informazione e di protezione del consumatore finale dei prodotti alimentari.
In concreto, quindi, la società ricorrente – ponendo in vendita prodotti forniti da altra azienda – avrebbe dovuto avere conoscenza (rendendosi parte diligente per il ruolo da essa ricoperta) della natura e della qualità dei prodotti da quest’ultima provenienti e, di conseguenza, sarebbe stata tenuta al controllo delle etichettature, in modo tale da verificarne la conformità alla normativa disciplinatrice del settore alimentare, onde evitare l’induzione in errore dell’acquirente-consumatore finale, alla cui tutela è, in definitiva, preposta la richiamata normativa.
E, nella fattispecie, il mancato esercizio di tali verifiche, traendo in inganno gli acquirenti, aveva determinato l’immissione in vendita confezioni di uova di allevamento in gabbia in sostituzione di uova da allevamento su terreno all’aperto con vegetazione per come risultante dall’apparente – ma irregolare – etichetta.